CURIOSITa'

Cannabis terapeutica – I pazienti che l’Italia non è in grado di aiutare 

 

«Figuriamoci se a 40 anni inizio a farmi le canne!». È stata questa la prima reazione di Silvia, quando al reparto di reumatologia dell’ospedale Gaetano Pini di Milano le è stata prescritta la cannabis terapeutica. Il fatto è che i medici, con lei, le avevano già provate tutte: morfine, oppioidi, antidolorifici pesantissimi, che Silvia ha provato per un anno «con una vita che non si può definire dignitosa». Silvia Barbero è affetta da una serie di patologie che le procurano un dolore intenso (artrite reumatoide, fibromialgia secondaria, tremore essenziale e sindrome sicca). Poco tempo dopo la diagnosi, sua figlia Giulia ha riscontrato problemi simili: da atleta di pallavolo è diventata «incapace anche solo di andare a scuola». Entrambe sono rimaste bloccate a letto per mesi, sottoposte ad ogni tipo di cura tradizionale. Poi è arrivata la cannabis, che ha cambiato le loro vite: Silvia, che oggi ha 44 anni, è tornata a muoversi, guidare l’auto, lavorare. Giulia, 19 anni, fa l’università e può spostarsi da sola a piedi.

 

 

                                                                                              Cannabis terapeutica: per chi e con quali costi

In Italia è possibile curarsi con la cannabis dal 2007. Qualsiasi medico la può prescrivere, a patto che la necessità del paziente rientri in uno dei sei casi espressamente previsti dal Ministero della Salute, tra cui la sclerosi multipla, le complicazioni del glaucoma o gli effetti di chemio e radioterapie. L’uso di cannabis in tutti questi casi è però limitato a una condizione fondamentale: che il paziente abbia già provato tutte le terapie convenzionali possibili (vale a dire l’uso di farmaci) e che queste si siano dimostrate inadatte.
I prodotti medici a base di cannabis si acquistano in farmacia e si possono assumere per via orale (come decotto) o inalatoria (tramite un vaporizzatore). I costi per la cannabis terapeutica sono elevatissimi. La rimborsabilità non è prevista da tutte le Regioni: Lombardia, Valle d’Aosta, Trentino, Molise, Calabria e Sardegna non hanno legiferato in materia. Silvia, che vive in provincia di Pavia, spendeva tra i 25 e i 30 euro al grammo per la varietà di cannabis di cui necessitava: concretamente, spiega, «per curare me e mia figlia spendevamo tra i 500 e i 600 euro al mese». Nel 2017, il Governo ha calmierato i prezzi abbassando il costo a carico del paziente a 9 euro al grammo: un problema in meno, per i pazienti come Silvia. Ma intanto se ne era presentato un altro, ben più grave: da aprile dell’anno scorso, infatti, le scorte di cannabis nelle farmacie hanno cominciato a esaurirsi. «Stavamo bene solo grazie alla cannabis – spiega Silvia – ne sono certa, perché da quando non l’abbiamo più avuta, mia figlia non riesce più a spostarsi neanche per fare 300 metri». 

                                                                                        Il monopolio della coltivazione

Per capire che cos’è successo bisogna risalire al 2014, quando il Ministero della Salute e quello della Difesa approvano un progetto per realizzare la coltivazione di cannabis terapeutica in Italia, così da non dover più dipendere dalle importazioni olandesi. Come luogo deputato alla coltivazione è stato scelto un istituto militare, lo Stabilimento Chimico Farmaceutico di Firenze. «Il problema è che una coltivazione del genere non ti improvvisi a farla se non sei capace»: a dirlo è Lorenzo Calvi, medico specialista in anestesia e rianimazione e ricercatore presso l’Università di Pavia. Secondo il dott. Calvi, quel progetto nasce proprio da una proposta del suo gruppo di ricerca: “Da quando è finita la cannabis, mia figlia Giulia non riesce più a camminare neanche per fare 300 metri” «Il Ministero della Salute ha rubato la nostra idea e l’ha usata per mettere a posto un ente in fallimento, l’Istituto Militare di Firenze». Per più di due anni lo Stabilimento non è riuscito a produrre niente, «bruciando un sacco di soldi delle nostre tasse», sottolinea Lorenzo Calvi. Tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017 è finalmente arrivata la prima produzione: «Sono stati prodotti 20, 30 kg di cannabis – spiega il dott. Calvi – ma sono spariti in un attimo». Il fabbisogno nazionale, in effetti, è stimato intorno ai 300 kg all’anno, una quantità enorme rispetto a quella prodotta. E così, dopo i primi mesi di euforia, i pazienti si sono ritrovati ad aprile a dover contattare farmacie in tutt’Italia alla ricerca di un prodotto che si stava esaurendo: «Finché ci siamo resi conto che proprio non ce n’era più», racconta Silvia Barbero. La cosa più grave è che le importazioni dall’estero sono state drasticamente ridimensionate in seguito alla prima produzione dello Stabilimento di Firenze, nella convinzione che non ce ne sarebbe più stata la necessità: nel 2017 lo Stato ha speso 1 milione e 600 mila euro per la produzione di cannabis e solo 700 mila per l’importazione: “Lo Stato ha prodotto 20, 30 kg di cannabis, ma il fabbisogno nazionale è di 300 kg all’anno”

                                                                                 «Hanno fatto male i conti», spiega il Dr. Lorenzo Calvi.

                                                                                              “Non c’è interesse per la ricerca”

A fine novembre 2017, la gravità della situazione risultava ormai evidente. Ciò ha spinto il Ministero della Difesa ad aprire un bando urgente per una nuova importazione di cannabis terapeutica dall’estero. Il bando è stato vinto da un marchio canadese, Aurora, che dovrebbe iniziare a distribuire i suoi prodotti in Italia verso fine aprile. «Noi potevamo fare la ricerca e la produzione», commenta Lorenzo Calvi, «invece, avendoci impedito di fare ricerca, adesso non sono neanche in grado di produrre, e dobbiamo tornare a importare». La denuncia del dott. Calvi verte anche su questo secondo problema: al monopolio governativo sulla produzione si sovrappone una sostanziale limitazione della ricerca. In Italia infatti c’è solo un Centro che è stato autorizzato a tale scopo: l’Istituto Cra-Cin di Rovigo, diretto da Gianpaolo Grassi. Altri centri di ricerca che hanno fatto richiesta, compreso quello dell’Università di Pavia, si sono visti negare questa possibilità. «Lo Stato non è interessato a investire nella ricerca sugli effetti benefici della cannabis – conclude Lorenzo Calvi – in questo modo evita la sostituzione di farmaci ben più lucrativi per l’industria farmaceutica. La cannabis, invece, non ha un’industria farmaceutica dietro: perché è una pianta, non è brevettabile».

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